Descrizione

Vivo a metà tra due mondi.

Il mondo interiore, immaginifico, plaga isolata, triste e splendida, faticosa e incessante da coltivare, costante nel suo richiamo alla mia anima come l'eco del mare sulla costa, forse fruttifera, o forse incompresa; e il mondo esteriore, luogo condiviso di esperienza, affetti, sorprese e nutrimento, nel quale imprimerò la sagoma della mia identità, per conquistare i tempi e gli spazi del mio mondo interiore.

E vivrò due vite in una.

martedì 11 settembre 2012

Colpi di coda

Ogni tanto la vita mi dispensa un piccolo, magnifico colpo di coda, non so se per miei meriti o demeriti, o per sua compassione o crudeltà. Per esempio, posso credere da dodici anni di conoscere a menadito un mio amico d’infanzia, e poi parlare con lui per davvero, forse per la prima volta come due adulti… e accorgermi che ho equivocato di comprendere molto su di lui, che non era esattamente come me lo immaginavo; che in realtà è migliore, forse decisamente migliore di me. E io, che da sempre dentro di me mi sentivo superiore per certi aspetti, che avevo implicitamente impostato il rapporto in questa maniera, comprendo di non esserlo mai stato: quello che ho costruito su di lui, sulla sua immagine, ora devo distruggerlo e cambiarlo come conviene, perché mi sono ancora ingannato da solo e ho ricevuto la mia solita lezione. E devo come sempre ringraziare di essere stato punito, perché ne sono uscito più saggio e più maturo… e sempre più cosciente di quanto io sappia essere limitato.

August Endell, "Bellezza delle metropoli", 1908

(Silenzio. Si alza il sipario. Applausi.)
«Sembra che molti scambino il cuore per un indumento, che non si deve portare troppo trasparente.»
(Applausi.)
«Ogni influsso straniero viene combattuto o rifiutato con comica rabbia. Come se l’amore verso la propria madre dipendesse dal fatto che essa è la più intelligente e la più bella delle donne, e non dal fatto che le siamo legati da migliaia di indistinguibili fili, che la conosciamo più intimamente di qualsiasi altra persona.»
(Applausi.)
«Se a chi lotta per la propria vita ogni fallimento appare come un duro colpo del destino, è comprensibile che egli desideri un continuo successo, e che così non riconosca che soltanto il fallimento dei nostri desideri dà forza e valore alle cose. Fortuna e sfortuna non sono separabili, è la loro unità a dare direzione e movimento alla vita: soltanto la riva fa dell’acqua una corrente.»
(Applausi. Ancora applausi.)
«Gli uomini hanno sempre creduto di trovarsi alla fine, di non doversi aspettare più nulla, e sempre invece basta una piccola ricerca a schiudere rinnovati orizzonti. Questa ricerca è la prova più bella che il mondo non avrà mai fine: essa ha sempre e soltanto arricchito, ha sempre svelato nuove e mai prima supposte bellezze.»
(Applausi. Cala il sipario. Applausi.)

Peccato che nessuno in platea abbia compreso una singola parola: sfortunatamente gli applausi coprivano qualunque altro suono...

lunedì 10 settembre 2012

Lettera d’amore

Illusione di salvezza, croce e delizia, viviamo con l’altro, per l’altro, nell’altro, per sostenerci a vicenda, nella continua commistione di “solo tu” e “solo io”, di egoismo e di altruismo. Scorgo in te quello che sei, quel che mi piace, quel che vorrei essere se fossi diverso da ciò che sono, quel che non potrò mai essere. Abbandono le mie difese per colpire ed essere colpito, per credere in ciò che tu rappresenti. Nessuno dei due, da solo, potrebbe mai avere tutto questo, perché entrambi lo acquistiamo assieme. Sorrisi così interiori, una pulsione tremante e lucente che si genera dai tuoi occhi, dalle tue mani, dai capelli e dal grembo, specchio della vita che brilla finalmente in me. Volteggiamo da un senso del possesso animale, come cibo soggetto a predazione, alla soglia labile tra pianto e gioia in cui trabocca la consapevolezza di noi due, quando le lacrime e l’abbraccio donano sollievo al sordo dolore che costringe ad amare ed essere amati. Come un brillante, caduco microcosmo binario che ruota e si evolve su se stesso, siamo due essenze centrifughe avvinte da una gravità troppo elastica da spezzare.

Reticenze da non pungolare

Un giorno, scrissi questo SMS:

«Non credo che oserò intuire più di quanto dichiari, quindi se vuoi farmi capire qualcosa, dovrai rassegnarti a dirmelo. Del resto, è sempre insolitamente difficile leggerti sulla faccia le emozioni… ma forse è proprio questo una parte del tuo fascino.»


Naturalmente, e forse lo avevo preventivato, non mi fu detto nulla, né allora né in seguito. Come se non bastasse, però, non mi fu più fatto intuire alcunché neppure dalle espressioni facciali.
Il che insegna che è meglio comprendere senza chiedere.

I figli sono come fiori

«I figli sono come fiori: getta il seme, guardali nascere, coltivali con attenzione. Bada alla terra in cui crescono, annaffiandola ripetutamente con il tuo amore. Non soffocarli con troppe cure, ma non lasciarli vulnerabili alle intemperie, poiché essi sono fragili e possono spezzarsi o appassire anzitempo, poiché il tuo compito è allevarli senza intrometterti nel loro rigoglio. Ricorda che non dischiudi tu le loro corolle, non porti tu a compimento la loro impollinazione: soltanto a loro spettano gli oneri e gli onori della fioritura.»

L'oblio dietro una pagina

Intere realtà si celano dietro cose che sembrano così trascurabili, così poco importanti. In un libro mi imbatto nell’immagine di un incongruo edificio architettonico: mi è facile reputarlo orribile, volgere lo sguardo alla foto successiva e dimenticarlo. Volto una singola pagina, e un laborioso passato viene accantonato con essa.

Molti operai lavorarono in quell’edificio per lunghe mattine, alzando muri e issando travi: le loro fatiche e le loro sveglie prima dell’alba diventano d’un tratto obsolete. Per troppe notti insonni l’architetto si arrovellò sui dettagli di quella facciata, simile a un puzzle che non combaciava, e tentò infine il colpo d’audacia, giocandosi la sua reputazione davanti ad una committenza che non avrebbe mai capito le sue difficoltà. Il suo coraggio fossilizzato nel fallimento è appiattito in un paio di foto che chiunque può sfogliare via. Impazienti telefonate tormentarono fornitori e trasportatori; decine di subappalti sono stati concordati e firmati tra recriminazioni e calcolo dei margini utili; centinaia di bolle annesse sono state verificate riga per riga, con l’abituale sfiducia di chi lavora male e in fretta e pensa lo stesso degli altri; grosse mani sono state serrate attorno a pacchi e arnesi, graffiate da detriti di cantiere, mani sottili sono state strette durante i meeting, o sporcate di inchiostro di biro, o tagliate dagli angoli dei fogli delle fotocopie. E tutto questo mondo risiede adesso dietro una singola foto, che il mio rifiuto noncurante umilia e oblia.

E ancora, in una voce che canta dagli altoparlanti si cela l’eco delle strida incerte sotto la doccia che la forgiarono, dei concerti disertati dal pubblico prima dell’abilità e del successo. Quanti copioni cestinati, scene tagliate e pellicole sprecate sono alla base di un film? Un incompreso lavoro mentale si affanna dietro la statica facciata che ognuno di noi espone agli occhi del prossimo. Come minuscoli covi di vespe, fremiamo nell’alveolato tessuto del mondo.

E io, nella testa satura mi trascino dietro mondi impossibili che solo la mia strenua costanza potrà partorire, e spingo me stesso verso un’opera che sarà probabilmente ignorata o negletta. Se pure sfuggisse soltanto a novecentonovantanove uomini su mille, ma se quel singolo lettore si limitasse a lasciar scivolare un’occhiata distratta e sdegnosa lungo le mie parole, a lambire appena la prima pagina di copertina e poi procedere oltre, potrei accettarlo? Se pure io avessi spinto me stesso oltre i miei limiti, ed essi non significassero comunque alcunché per lui, non potrei mai accusarlo di noncuranza. Non potrà mai sapere delle notti insonni in cui sfido il mio senno ad ostinarsi dietro le mie follie; e se pure conoscesse la mia fatica, che mai potrà importare a lui, uomo della strada per me come io sono estraneo alle sue tribolazioni personali?


In questa notte simile al buio in fondo al pozzo, in cui io sono il recluso in una prigione di impegno e anche il carceriere che ne detiene le chiavi, brillano solo il sudore dello sforzo e una speranza lontana come una stella: che la salvezza non sia rara.

venerdì 7 settembre 2012

Quando un albero diventa roccia

Un albero divenne roccia. Le frementi chiome al vento nella quiete compose, sereno e stolido, rimirando il tramonto all’orizzonte.

Prima che la tecnologia mi supportasse, pensavo che sarebbe stato utile mettere una data ai miei diversi pensieri, per tracciare il filo dell’evoluzione nelle nostalgiche, rimembranti riletture… Ma dubito che il passato richieda un simile quadro organico se si intende vivere nell’attimo eterno, dove ciò che fu è uno spettro sempre attuale. Così come si leggono aforismi con la volontà di collocarli fuori dal tempo e di renderne universale la validità, forse vorrei che i miei frammenti rimanessero lampi di pensieri, sentimenti e impressioni da leggere e interpretare in una continua riflessione, come se appartenessero ad un libro che posso riporre ed estrarre alla bisogna o  a mio piacere. Più probabilmente, invece, essi sono come foglie che germogliano sui miei rami per poi sparire negli impeti del vento. È difficile accettare di essere stato qualcosa di diverso da ciò che sono adesso.

E intanto la mia agenda interiore si rarefa di impegni. Sempre meno una revisione di me stesso è richiesta o, peggio, sentita necessaria; sempre meno, del resto, una revisione di me stesso è necessaria, poiché a questa età la vita mi ha già abbondantemente incanalato. (Mi fu replicato, correttamente, che chi si attarda ingrosserà le tristi e precarie fila di chi non ha saputo scegliere.)
Sto costruendo un mondo nel mondo, per la cui affermazione e difesa devo lottare con forte spesa di energia: la restante è assorbita dall’adattamento perpetuo alle condizioni esterne. Ciò che periodicamente mi disorienta è la mia natura di individuo razionalizzante ma non razionale, incapace di mantenere salda la presa sugli obiettivi a lungo termine, quando una soddisfazione minore, ma più vicina e più immediata, si affaccia alla finestra della mio covo di determinazione. E penso spesso quale senso mai abbia perdersi in speculazioni e malinconie quando ciò che già possiedo mi impegna pienamente ed è anche in grado di donarmi felicità.
La mia economia interiore mi sollecita a trovare valide ragioni per investire tempo, il bene più prezioso, su ciò che non vedo, senza una preventiva certezza di costrutto. Un detto ovvio afferma che la vita è più semplice per chi pensa meno; è indubbiamento un dato di fatto che viaggiare leggeri permette di coprire molta strada.
Persino l'acqua agrodolce in cui amavo immergermi per meditare su ciò che avevo perduto oggi è si disseccata di fronte alla pragmatica evidenza di queste argomentazioni. È arduo assaporare una scomparsa quando si percepisce in sé una continua costruzione.

Ho sempre pensato che, in me, causa prima della malinconia fosse l’inazione: da quando il placido stagnosi è trasformato in fiume, la corrente che mi circonda mi trascina via insieme con le mie fantasticherie. Temo davvero di smarrire la mia peculiarità interiore, il nucleo spirituale dove risiedeva la mia forza più intima e originale, dalla quale non posso e non voglio distaccarmi. Percepisco un inaridimento spirituale che si affianca ad un adattamento al mondo circostante; percepisco anche una mia indifferenza a tale spoliazione. Non riesco più a sentirmi triste: tutto mi conduce alla serenità, unica risorsa utile per affrontarli. Ogni giorno divento sempre più simile ad una roccia: sereno, stolido, e inconsapevole di me stesso.

giovedì 6 settembre 2012

La scala di una vittoria

«Si pensa che solo i grandi del mondo spingano al massimo le proprie capacità, e che siano tali proprio per questo. Ma anche l’umile contadino si sforza l’anima pur di strappare dalla terra il proprio sostentamento, lottando ad ogni raccolto contro la morte per fame, così come il ladro cerca ovunque la merce più facile e redditizia, le guardie più corrotte, le serrature più deboli o meno in vista. Il mercenario che arrischia la vita per due soldi si affanna a studiare nuove finte per accelerare gli scontri a suo favore o per schivare ulteriori ferite, e si oppone al difetto di talento o al corpo danneggiato e invecchiato che risponde sempre meno alla velocità del suo pensiero. E col medesimo sforzo, talora disperato, anche la matura cortigiana ricerca e prova nuovi cosmetici e nuove alchimie di profumo, si affanna dietro le ultime mode, studia con invidia le acconciature e le movenze delle giovani e ambiziose colleghe, si esercita in danze di passione sempre più raffinate: tutto, pur di non perdere il proprio fascino e lo spietato, volubile favore del suo protettore, sempre a caccia di nuova carne con cui rimpiazzare la vecchia. Se costoro decidessero di mollare la propria lotta anonima, in cui annoverano se stessi tra i nemici, non fallirebbero semplicemente, bensì morirebbero, di stenti, di spada o di veleno. La difficoltà del mondo è distribuita egualmente su tutti i ceti, ma solo i potenti sono in grado di ricavarne un riconoscimento o un premio che vada oltre la sopravvivenza. La grandezza di una vittoria può essere misurata solo su una scala proporzionale al benessere di chi la ottiene.»

Romitaggi (parte 1)

A volte mi sembra di perdere completamente il mio tempo, che stia sprecando le mie energie per inseguire sogni che non hanno valore né sbocco. Mentre altri si divertono in situazioni prefabbricate, create da terzi per il loro intrattenimento, io rimango qui, in isolamento, inseguendo fantasmi nei quali a volte non credo completamente. Altri guardano film e vi discutono animatamente, mentre io, in silenzio, sogno di costruire una trama. Altri si aggirano in videogiochi lussureggianti, sedotti negli occhi e nell’adrenalina, mentre io mi accanisco nel creare ambientazioni immaginifiche, come una creatura di atrabile. Altri coltivano un’intensa vita sociale, mentre io, di sera e nei lunghi viaggi solitari, rimango perso nelle mie fantasie, la cui concretizzazione è più una speranza che una certezza.

E in cambio di che cosa? Mi domando, se io mi trovassi in situazioni problematiche, a chi potrei chiedere una mano? Chi accorrerebbe per me, se io davvero non coltivassi più nessuno, smarrito nei miei sogni egotici? Queste volte mi sento completamente inutile, superfluo, incapace di accettare le logiche della vita vera.

Sono peculiare, ma ciò non significa che io sia anche prezioso.

Primi passi di architettura: una sedia orrenda

La primissima esperienza di architettura sono stati i cubetti di legno, con i quali, a 6-7 anni, costruivo piccoli palazzi e li animavo con i miei personaggi: avete presente i Puffi di gomma, quel campionario anni '80 di pupazzetti con i personaggi dei cartoni animati di punta? Bene, ne ero pieno. E così volavano i pomeriggi...
Ma ancora prima, ebbi una vecchia sedia stile liberty in vimini (un arredo oggettivamente orrendo a vedersi, se rivisto dopo due decine di anni), che si trasformava nella mia mente in una grande magione a più piani, riservata ai miei pupazzi di peluche. Lo schienale era la sala del trono, su cui regnava come re il mio peluche preferito, che era addirittura 4 anni più vecchio di me; i braccioli erano i palchi e i loggiati circostanti, da cui i peluche di serie B inneggiavano a quelli di serie A (ogni bambino ha le sue predilezioni e i suoi ostracismi); lo spazio sotto il pianale era la sala comune, le cui colonne erano le gambe della sedia, simili ai sequipedali sostegni della Torre Eiffel, e i cui accessi erano le arcate in vimini che congiungevano le gambe stesse.
Trame elaborate su intrighi di corte e tradimenti verterono a lungo su questa magione, il cui possesso era ambito da ogni mio peluche. Da ciò, il passaggio alle costruzioni Lego e alla realizzazione di veri modelli tridimensionali di case, castelli e intere città è stato incredibilmente breve.
Se ci penso adesso, ogni struttura ardita e ogni elaborato svolazzo che realizzai in seguito rappresentarono solo lo sviluppo materico e visibile di quello che, in nuce, già mi ero figurato nelle scheletriche curvature di una sedia senza qualità.

Ritornando a casa


Se mai rincasato accorgendoti di quanto piccolo è il cosmo della tua vita?

È sera tardi, e sei da solo. Salutati gli amici, entri in macchina, accendi il motore, con lento movimento rientri in strada e inizi a percorrere la tua rodata via verso casa. Le alterne luci dei lampioni ti accompagnano, guidandoti al tuo covile, recintando il percorso come se tu fossi una pecora al ritorno dalla transumanza.
Eppure, cento strade aprono i loro bivi lungo il tuo tragitto e, da esse, altre mille, a te sconosciute, spalancano l’orizzonte verso luoghi che per te esistono solo nell’immaginazione, oltre i pacifici limiti della tua pigrizia. Se tu continuassi a procedere verso di loro, infrangendo le Colonne d’Ercole della tua conoscenza, l’automobile proseguirebbe entro carreggiate ignoti, e una strada si aprirebbe dopo l’altra, come rami che gemmassero e fiorissero progressivamente l’uno dall’altro.
Se tu insistissi, stupito e frastornato dal tuo coraggio, vedresti i paesaggi a te cari svanire in un continuum graduale e inarrestabile. Vedresti mutare il clima e il panorama in forme vagheggiate o esperite solo mediante la televisione e i libri, e ti circonderebbero lande straniere che non avresti mai pensato di raggiungere così, semplicemente con la tua automobile. Potresti raggiungere financo la Cina remota e altre terre di sogno, perché esse sono realmente collegate a te attraverso il medesimo terreno, per quanto immenso, che tu calpesti quotidianamente, distrattamente.
Ma ecco, sei arrivato alla solita curva buia che piega a sinistra verso casa. Scintillante di bagliori ai vapori di sodio, lo svincolo autostradale appare dritto innanzi a te, come un portale verso la fuga.
Un attimo, un istinto di dubbio.
Poi l’automobile sembra sterzare da sola, guidata dalla tua abitudine. E così ti lasci indietro lo svincolo, per l’ennesima volta, placido e inerte, come una pecora al ritorno dalla transumanza.